Roberto Cuppone

IMG 2753ROBERTO CUPPONE - Attore e critico teatrale

Pierpaolo ama Angela e ci fa l’amore dietro la stalla, ogni sera, sfidando paron Toni e le ciacole di quella racola della Gina - quando trova il tempo di farle, tra un sigo e l’altro al povero Fulvio - ma, fatalità, proprio questa sera qui che ci siamo noi, non va a intivare gli oseladori? che prima si prendono fra di loro per fantasmi, ma invece no sono loro, poi scambiano lui per un guardiacaccia, e, non è che abbiano ciappato granché, quattro seleghe e due strioli, ma sicome che non si sa mai, per ingraziarselo lo invitano a cena dove alla Pineta viene l’idea che in fondo sarebbe un buon partito per Angela e allora Toni, che se no la Pineta gli cria, cerca di petarglielo, che Angela sarebbe ben contenta, no? anche se Piero sapeva che non era il guardiacaccia perché glielo aveva detto la Chiara e nel frattempo si era creato un equivoco sulle intenzioni della Elda - gnente di importante, robe fra amiche, con quelle tette - ma per fortuna ci pensa Menego che si sacrifica, si fa per dire, lui, che aveva giurato che mai, e se la monta in canna, così Pierpaolo sposa Angela e si brinda con un fiasco di rosso, che Toni non potrebbe, però per questa volta va là, e tutti vivono felici e contenti. A parte le seleghe.Uno spettacolo che si beve come un bicchier d’acqua, tutto d’un fiato; che del bicchier d’acqua ha la freschezza e la semplicità. Una compagnia assortita, per physique (fra le innamorate non mancano la “secca come una stroppa” e la “tonda co fa na bondola”), per età (tre generazioni, diverse per caratteri ovviamente, ma anche per lingua) e per tecnica (dalla declamazione mélo al minimalismo cabarettistico); che porta in scena tutta questa sua ricchezza e questa umanità, questo patrimonio di esperienza e di malizia, di imbarazzi e di evidenze, senza presunzione né d’arte, né di messaggio. E così facendo si rappresenta veramente, e attraverso se stessa rappresenta (più o meno volontariamente, ma che importa) una Vicenza inurbata e ricca con un passato prossimo a volte più presente del presente. Con i vantaggi e gli svantaggi di questo passato troppo (poco) prossimo: lo stupore di incontrare “per caso” una lingua, l’ultima fra quelle da noi conosciute - ancora capace di nominare le “cose”; il piacere di ritrovare nella fòla di Petòn e Petéle, ben oltre la citazione nostalgica, la forza narrativa di un simpatico tormentone (e che cos’è, per la civiltà contadina, la Storia, se non un tragico tormentone?); ma anche la comicità involontaria di quei modi di dire vicentini che non hanno il peso (non accettano la responsabilità) di essere proverbi e che nella loro ovvietà rasentano la stupidità (eppure oggi imbandierano certo revanscismo d’accatto e certo immobilismo culturale). Pegoraro, già fondatore di due compagnie (Homo Ridens e Piazzetta), attore e autore, e oggi anima del Covolo, con esperienza e misura costruisce sugli attori e con gli attori una allegra macchina da risate, sfruttando la comicità di situazione prima ancora che quella facile di battuta; liberando così il dialetto, un vicentino Riviera Berica anni Quaranta, dalla responsabilità di evocare, riesumare, sfrucugliare nella nostalgia e nella regressione; come invece spesso succede in tanto teatro dialettale. Ecco che l’Autore fa la differenza: fra tante goldonate e gallinerie, capita di incontrare un teatro amatoriale che “ama” il teatro, dunque rischia, crea qualcosa di originale e specifico, infischiandosene delle imitazioni del professionismo o dei cascami culturali di provincia. Una buona scrittura per la scena riempie di significato una vocazione al teatro di cui la nostra regione è fra le più ricche d’Italia. Rosti e menarosti è un piccolo gioioso rito civile in cui una comunità mette in scena con semplicità e immediatezza la propria appartenenza linguistica e una sincera, fisica voglia di giocare. Il titolo non mente: per una volta, a teatro, troverete più arrosto che fumo. 

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